Disoccupati 40enni dormono in auto per 3 mesi, costretti a lavarsi nell’Isonzo
Hanno dormito quasi tre mesi per la strada, lavandosi nell’Isonzo o nei bar come i clandestini, ma i profughi questa volta non c’entrano. Lorenzo e Francesca hanno, rispettivamente, 40 e 30 anni.
Sono italiani e il loro ultimo domicilio ufficiale è stato a Gradisca d’Isonzo. Quest’estate la loro vita è stata stravolta all’improvviso. Da un giorno all’altro si sono trovati senza un tetto sotto cui dormire e questo li ha spinti nel profondo di una spirale che, in poco tempo, li ha risucchiati sputandoli ai margini della società.
Le loro identità sono state letteralmente cancellate da un cortocircuito della burocrazia. Tra le tante cose che hanno perso c’è anche il medico di famiglia.
Per le istituzioni, semplicemente, non esistevano più e ora, poco alla volta, aggrappandosi a quella rete di solidarietà nata per dare risposte proprio alle questioni dei richiedenti asilo, stanno tentando di risalire la china. L’impresa, però, non è semplice. I nomi della coppia sono fittizi, ma la storia è tragicamente reale e affonda le radici nel sommerso del lavoro irregolare.
«Avevo una normale occupazione nel mondo dell’edilizia, ma era in nero perché, se vuoi lavorare, oggi funziona così – spiega Lorenzo, che da giugno è dimagrito di 13 chili – Ovviamente non hai garanzie e, infatti, da un giorno all’altro sono rimasto a casa. Non potendo pagare le bollette e l’affitto ho lasciato l’appartamento dove vivevo. Conoscevo una persona che aveva un edificio da sistemare. L’accordo – prosegue – era che io glielo ristrutturavo e lui ci ospitava. Una volta terminato l’intervento, però, lui ha venduto la casa e nel giro di una settimana – conclude Lorenzo – ci siamo ritrovati a vivere in macchina».
A quel punto tutte le richieste d’aiuto sono rimaste inascoltate. «Dai Comuni all’Ater, a livello istituzionale, abbiamo trovato solo porte chiuse. Per i servizi sociali non esistevamo: risultavamo senza fissa dimora. Nessuno sapeva chi dovesse prenderci in carico. Senza un conto corrente, poi, i patronati non hanno neppure voluto farci l’Isee. Sia a Gorizia, sia a Gradisca hanno respinto la nostra dichiarazione sostitutiva».
Per Lorenzo e Francesca pensare di affittare un appartamento sul mercato tradizionale è pura utopia: «Devi versare una caparra e, oltre ai mesi d’affitto anticipato, ti vengono chieste le buste paga. Anche avendo i soldi, non abbiamo alcuna garanzia da presentare alle agenzie».
Per due mesi e 23 giorni («Li ho contati tutti») Lorenzo e Francesca hanno dormito in macchina. Per tenere alto il morale la chiamavano «il locale a 4 ruote» e fingevano d’essere in campeggio, ma vivere per strada costa più che vivere in un appartamento («nel migliore dei casi, si spendono 30 euro al giorno, ma alle volte si arriva a 50»).
Gli amici sono scomparsi dall’oggi al domani e in questo contesto gli aiuti sono giunti per le vie più inattese: «Abbiamo trovato la solidarietà di persone che abbiamo incontrato per sbaglio. In alcuni casi erano arrivate in Italia clandestinamente: sapevano, quindi, cosa significava stare nelle nostre condizioni e ci sono venute incontro».
Alla fine la disperazione ha spinto Francesca a scrivere un messaggio di rabbia all’assessore provinciale Ilaria Cecot. «Le dicevo che si preoccupava tanto dei profughi sull’Isonzo, ma non le importava nulla degli italiani. Non mi aspettavo una risposta, anche perché sapevo che non aveva competenze in materia. Invece – racconta la donna –, oltre a rispondermi, ha mosso mezzo mondo per tentare di risolvere il problema e, con l’aiuto di don Paolo Zuttion di Andrea Bellavite e di un’assistente sociale capace di capire le situazioni per quello che sono, in 48 ore ci ha trovato un alloggio provvisorio
a Fiumicello da don Gigi Fontanot».
Adesso che la coppia ha un domicilio, Lorenzo e Francesca possono ricominciare a costruirsi un’identità e una nuova vita, ma la loro vicenda mette in evidenza un problema nel sistema di assistenza sociale.Hanno dormito quasi tre mesi per la strada, lavandosi nell’Isonzo o nei bar come i clandestini, ma i profughi questa volta non c’entrano. Lorenzo e Francesca hanno, rispettivamente, 40 e 30 anni.
Sono italiani e il loro ultimo domicilio ufficiale è stato a Gradisca d’Isonzo. Quest’estate la loro vita è stata stravolta all’improvviso. Da un giorno all’altro si sono trovati senza un tetto sotto cui dormire e questo li ha spinti nel profondo di una spirale che, in poco tempo, li ha risucchiati sputandoli ai margini della società.
Le loro identità sono state letteralmente cancellate da un cortocircuito della burocrazia. Tra le tante cose che hanno perso c’è anche il medico di famiglia.
Per le istituzioni, semplicemente, non esistevano più e ora, poco alla volta, aggrappandosi a quella rete di solidarietà nata per dare risposte proprio alle questioni dei richiedenti asilo, stanno tentando di risalire la china. L’impresa, però, non è semplice. I nomi della coppia sono fittizi, ma la storia è tragicamente reale e affonda le radici nel sommerso del lavoro irregolare.
«Avevo una normale occupazione nel mondo dell’edilizia, ma era in nero perché, se vuoi lavorare, oggi funziona così – spiega Lorenzo, che da giugno è dimagrito di 13 chili – Ovviamente non hai garanzie e, infatti, da un giorno all’altro sono rimasto a casa. Non potendo pagare le bollette e l’affitto ho lasciato l’appartamento dove vivevo. Conoscevo una persona che aveva un edificio da sistemare. L’accordo – prosegue – era che io glielo ristrutturavo e lui ci ospitava. Una volta terminato l’intervento, però, lui ha venduto la casa e nel giro di una settimana – conclude Lorenzo – ci siamo ritrovati a vivere in macchina».
A quel punto tutte le richieste d’aiuto sono rimaste inascoltate. «Dai Comuni all’Ater, a livello istituzionale, abbiamo trovato solo porte chiuse. Per i servizi sociali non esistevamo: risultavamo senza fissa dimora. Nessuno sapeva chi dovesse prenderci in carico. Senza un conto corrente, poi, i patronati non hanno neppure voluto farci l’Isee. Sia a Gorizia, sia a Gradisca hanno respinto la nostra dichiarazione sostitutiva».
Per Lorenzo e Francesca pensare di affittare un appartamento sul mercato tradizionale è pura utopia: «Devi versare una caparra e, oltre ai mesi d’affitto anticipato, ti vengono chieste le buste paga. Anche avendo i soldi, non abbiamo alcuna garanzia da presentare alle agenzie».
Per due mesi e 23 giorni («Li ho contati tutti») Lorenzo e Francesca hanno dormito in macchina. Per tenere alto il morale la chiamavano «il locale a 4 ruote» e fingevano d’essere in campeggio, ma vivere per strada costa più che vivere in un appartamento («nel migliore dei casi, si spendono 30 euro al giorno, ma alle volte si arriva a 50»).
Gli amici sono scomparsi dall’oggi al domani e in questo contesto gli aiuti sono giunti per le vie più inattese: «Abbiamo trovato la solidarietà di persone che abbiamo incontrato per sbaglio. In alcuni casi erano arrivate in Italia clandestinamente: sapevano, quindi, cosa significava stare nelle nostre condizioni e ci sono venute incontro».
Alla fine la disperazione ha spinto Francesca a scrivere un messaggio di rabbia all’assessore provinciale Ilaria Cecot. «Le dicevo che si preoccupava tanto dei profughi sull’Isonzo, ma non le importava nulla degli italiani. Non mi aspettavo una risposta, anche perché sapevo che non aveva competenze in materia. Invece – racconta la donna –, oltre a rispondermi, ha mosso mezzo mondo per tentare di risolvere il problema e, con l’aiuto di don Paolo Zuttion di Andrea Bellavite e di un’assistente sociale capace di capire le situazioni per quello che sono, in 48 ore ci ha trovato un alloggio provvisorio
a Fiumicello da don Gigi Fontanot».
Adesso che la coppia ha un domicilio, Lorenzo e Francesca possono ricominciare a costruirsi un’identità e una nuova vita, ma la loro vicenda mette in evidenza un problema nel sistema di assistenza sociale.